Nel gelo lucido dei numeri il racconto sarebbe un altro: 37% di possesso contro il 63% del Napoli; un quadro di xG che suggeriva massimo un gol rossonero contro tre potenziali degli uomini di Conte. Eppure, la sostanza è che il 2-1 a San Siro consegna al gruppo di Massimiliano Allegri un messaggio che i tabellini non sanno scrivere: consapevolezza. Non è negare l’analisi, è ricordare che non tutto ciò che decide una partita abita nei database. Il Milan l’ha impostata per difendere basso quando serviva, l’ha sporcata – con mestiere – dopo il rosso a Estupiñán sul contatto con Di Lorenzo, l’ha frammentata nel momento in cui De Bruyne ha riaperto su rigore. Manuale Cencelli della gestione: rallentare il ritmo altrui, piegare il cronometro, alimentare il nervosismo dell’avversario. Questo si fa solo con una squadra esperta quasi quanto quella che ti fronteggia: i dettagli non li reggono i giovani promettenti, li reggono quelli che hanno già vinto.
Allegri ha rimesso il Milan al suo posto naturale
In cinque partite ha spento il rumore di fondo: il “bollito”, il “ciclo finito”, l’allenatore che non può più stare a quel livello. Le frasi che hanno guidato la virata sono due e valgono una tesi: “Qui vincere è la normalità, la sconfitta un’eccezione” e, dopo il Napoli, “Adesso i ragazzi avvertono il giusto pericolo”. In campo si traduce così: segnare al Milan sta tornando difficile. Un anno fa i rossoneri chiudevano con 43 gol subiti, settima difesa del torneo; oggi, dopo il doppio schiaffo inaugurale con la Cremonese, la linea arretrata ha trovato cadenza e disciplina. A tenere fermo l’ago c’è una regola antica: le partite si vincono con chi sa attraversarle. E il Milan di San Siro ha mostrato proprio questo.
La svolta? Un mattino dopo la Cremonese, con un nome e un’idea
Come spesso accade nelle stagioni che cambiano pelle, la rottura è nata da una sconfitta utile. Il giorno dopo lo 0-2 con la Cremonese, Allegri ha preteso correzioni: oltre a Jashari e Ricci, serviva un centrocampista d’esperienza da affiancare a Modrić e, davanti, un profilo affidabile. La chiave ha un nome che conosce a memoria: Adrien Rabiot. Con il francese ai lati di Fofana e del croato, il campo ha ritrovato una geometria semplice e feroce: Fofana–Modrić–Rabiot è oggi la mediana che annusa il pericolo, ricuce e rilancia, libera Modrić al suo mestiere più nobile – regista a tutto campo – senza esonerarlo dalla fase difensiva. È equilibrio, prima ancora che splendore. E davanti, in attesa di Rafael Leão, c’è Christian Pulisic: dopo sette partite, sei gol e due assist. L’americano non ha perso la via delle notti che contano: tagli, tempi d’attacco dell’area, concretezza.
È davvero un nuovo Allegri? No: è il solito Allegri, con gli uomini giusti
Si dirà che si è evoluto. Forse. Ma chi lo ascolta e chi guarda le sue squadre riconosce un filo che non si spezza: “Spero di vincere tante partite 1-0”. La differenza la fanno i giocatori, il miglior allenatore è spesso quello che non fa danni. Non è auto-sminuire: è misura. Perché difendere il 2-1 in inferiorità non è una lavagna, è una scelta collettiva. È Modrić che a 40 anni si sacrifica più degli altri, è Rabiot che appare ovunque, è la linea che difende l’area con tre corpi sul tiro dal limite. Uomini al posto giusto, un tecnico che ha creato gruppo in fretta e ha ridato un’identità da Milan al Milan. Il resto – possesso, xG, percentuali – serve a capire. Ma la differenza, ieri, l’ha fatta crederci. E saperci stare.